Fumano placide, le pentole curate dalla governante Kristin, occhieggiando dal praticabile dominante l’ampia sala da pranzo in pietra: questa la prima immagine, all’azionarsi delle luci. Lo spazio scenico di SPAM!, uso a tutt’altro tipo di performance, non ha sipario, e così inizia l’allestimento di Akroama Teatro, costruito su Fröken Julie, testo tra i più celebri della produzione strindberghiana.
Dramma a tre, in un salotto quasi borghese: vi s’avvertono le forze, sociali e psicologiche, destinate a tarlare, corrodere, il milieu più proprio della cultura europea fine ottocentesca. La disgregazione assume i tratti della contesa di classe (l’amore impossibile tra una giovane ricca e un sottoposto), senza però distogliere lo sguardo dal piano pulsionale, esponendo, a mo’ di frattura, le incongruenze di forme sociali inadatte a “contenere” la fluidità della vita. Lelio Lecis decide scientemente di non toccar più di tanto la partitura originale, concentrando l’indagine sull’insidiosissima “partita a scacchi” tra un uomo e una donna in amore, anziché vagliare, almeno così parrebbe, la tenuta contemporanea d’una drammaturgia comunque ricca di elementi insuperati.
Ne esce un “oggetto” scenico peculiare: il brioso avvio da commedia sofisticata (tale il primo duetto tra Kristin e Jean, un Giovanni Andrea Vinci ben impegnato dai cambi ritmici del personaggio), lascia campo, con l’arrivo della protagonista (Julia Pirchl), all’estenuato e mutevolissimo confronto tra questa e il baldo servitore.
L’uomo e la domestica Kristin (Erika Carta) sarebbero, peraltro, legati; relazione che viene squassata all’irruzione della fascinosa, incontenibile nobil-fanciulla: alle tensioni emotive, vengono a sovrapporsi quelle di casta, in una serie di ribaltamenti gerarchici secondo gli assi maschile/femminile e nobiltà/plebe.
Ogni personaggio reca dentro sé un mondo di contraddizioni, dolori, questioni irrisolte: tutto puntualmente riversato sull’interlocutore, non senza violenza, rabbia, nulla capacità di dominarsi. Hanno un bel daffare, Vinci e Pirchl: il loro sfibrante batti e ribatti esigerebbe, però, tutt’altra forza, tutt’altra verità, specialmente per quanto concerne la prestazione dall’attrice, cui l’accento germanico, anziché giovare, finisce per indebolire la tenuta del personaggio. Lui, abito scuro, è azzimato, serioso, ruvido; lei, vestito leggero a fiori che a tratti lascia intravedere le gambe, è scostante, svagata, incoerente, aspetti sicuramente attinenti alla figura, ma infragiliti, purtroppo, da una recitazione eccepibile.
Il risultato, non voluto, è di spingere ancor “più indietro nel tempo” un testo che, invece, non parrebbe affatto datato, a patto però di saperne trarre gli spunti più fecondi: non per attualizzarlo (concordiamo con Nietzsche: l’attualità è dimensione mortifera), quanto, piuttosto, per rimetterlo in vita, in forza, ossia in scena.
Pensiamo al successo recente d’una serie tv quale Downton Abbey, che potrebbe contenere benissimo una storia simile. La questione, come sempre, non è il quando della scrittura, bensì il come del qui-e-ora scenico.
Ritmo e fluidità impattano sulla vividezza dell’insieme: i rapporti umani, nonostante il terremoto digitale, (ancora?) non sono mutati tanto in profondo da non poter essere rischiarati da questo intimo giallo svedese, che a tratti, in certe robustaggini di Vinci, potrebbe ricordare alcune sequenze dei film di Lina Wertmüller. Ed è indubbio come Signorina Julie possa ancora aspirare a una degna collocazione nell’ambito della prosa contemporanea, ma la strada, non ce ne vogliano i professionisti di Akroama, forse dovrebbe essere un’altra.
Qualche applauso arriva, da un pubblico oramai poco avvezzo alla prosa convenzionale, mentre altre volute di fumo, dalle pentole della cucina in alto a sinistra, sbuffano in aria.