Vi era un tempo in cui i comici italiani facevano paura. Avevano sostituito gli intellettuali fagocitati dal riflusso nell’osservare la realtà, fungendo quasi da sentinelle critiche d’una ragionevole sensibilità comune: sentir parlare un comedian, negli anni Novanta compreso qualche strascico successivo, poteva rappresentare occasione d’incontro con un punto di vista altro. Che ciò costituisse pure un problema è indubbio, nondimeno si può dire che certo teatro, certo cinema e certa tv hanno assolto a funzioni altrimenti vacanti. Fa quindi impressione registrare come l’attuale nostra comicità si presenti, non da ieri, in forme depotenziate, dimesse, impegnate in un gioco al ribasso che rischia di comprometterne la stessa ragion d’essere. Altri ne hanno recentemente discusso, con esiti alterni, ma quanto appena scritto ci è apparso lampante assistendo a Matti da slegare, commedia (oggetto d’un battage pubblicitario di tutto rispetto) che vede impegnati Enzo Iacchetti e Giobbe Covatta, per la regia di Gioele Dix.
Elling og Kjell Bjarne, pièce del norvegese Axel Hellstenius scritta nel 1999 e ampiamente diffusasi in area anglosassone, viene traslata in un’Italia dai tratti familiari: Elia e Gianni, ospiti d’un ospedale psichiatrico, dopo anni di buona condotta sono coinvolti in un programma di reinserimento (slegare i matti, appunto) che ne prevede la coabitazione controllata in un appartamento. L’Elia di Iacchetti è imbranato ma composto, sbalestrato ma ragionevole, preda di piccole manie a minarne la quasi apparente “normalità”; Covatta è un corpacciuto out sider renitente all’igiene che, non avendo mai gustate le gioie dell’amor profano, non fa che parlar di sesso, con prevedibili esiti paradossali. Entrambi hanno storie straziate di madri incapaci d’amore, causa prima (assunto condivisibile benché non originalissimo) dei rispettivi disagi.
La peculiare convivenza è svolta all’interno d’un ampio spazio domestico dai lignei toni chiari: i fatti piccoli e grandi che vedono protagonisti Gianni ed Elia compongono una serie di sketch cuciti assieme da stacchi musicali. Si ride; anzi, si ridacchia: Iacchetti e Covatta prestano i propri personaggi riconosciuti (le proprie maschere) ai caratteri del testo ed è questo, forse, il limite endemico del lavoro, complice una recitazione consolidata ma prevedibile. Covatta riesce, talvolta, ad “arrivare” grazie al crasso humour; i toni lunari di Iacchetti rischiano invece l’inviluppo nell’esteriorità sin troppo esplicita dei tic.
La questione, però, è altra e generale: non c’è scarto né sorpresa. In locandina campeggiano i volti dei protagonisti e, in effetti, al pubblico vengono offerte esattamente le versioni live dei medesimi, senza la minima gemmazione rispetto all’orizzonte d’attesa. La transazione, corretta in chiave commerciale (si paga per X, si ottiene X), risulta del tutto eccepibile se considerata in termini espressivi o artistici. Anche, e soprattutto, in ottica comica.
Val poco la garbata (e prevedibile) conclusione felice, condita dalla moralina secondo cui i matti son uomini anche loro: tutto corretto, volendo, ma privo di mordente, d’una qualsiasi urgenza, d’una reale ragion d’essere. E questo spiace, perché Covatta è comico di razza capace di far male (ricordiamo gli spot per AMREF: risate e colpi allo stomaco), Iacchetti un buon professionista, e così le due compagne di scena (Irene Serini e Gisella Szaniszlò). Ingredienti, cui aggiungiamo per una volta l’ottima resa sonora nonostante l’inevitabile impiego di microfoni (bravi i tecnici!), che non salvano uno spettacolo comunque in grado di strappare risa e e battimani al pubblico di Carrara.