Secondo alcune stime è l’opera lirica più rappresentata nel mondo, ma questa non è una scusa per la poco felice sovrapposizione, a pochi chilometri di distanza, di due allestimenti di La bohème. Se a Lucca va in scena la messinscena di Marco Gandini a inaugurare l’edizione 2016 di Puccini Days, qui scriviamo della versione dell’Opera di Firenze, importata dal Comunale di Bologna. Non è escluso che, in un eccesso di bontà, qualcuno vi racconti pure cos’è andato in scena nella città natale di Giacomo Puccini.
L’intero allestimento è dominato da una grande impalcatura a due piani che, ruotando su sé stessa, permette veloci cambi di scena e, quindi, un solo intervallo tra il secondo e il terzo quadro. Si finisce prima (ed è sempre un merito), ma il passaggio così repentino disorienta, specialmente quando si arriva all’ultima sezione e dovrebbero essere passati dei mesi. La scenografia di William Orlandi si presta benissimo per l’affollatissima scena al Caffè Momus, ma è troppo vuota e dispersiva quando dovremmo trovarci nella soffitta fredda e intima.
L’affiatamento fra i quattro coinquilini è evidente: nella visione del regista Lorenzo Mariani (di cui, sempre a Firenze, abbiamo recensito un Così fan tutte) sono dei giovani scanzonati e un po’ cialtroni, sempre intenti a rovesciar bicchieri e lanciarsi oggetti o cibo. Filosofo, poeta, musicista e pittore sono connotati da vistosi dettagli nel costume o nell’acconciatura, e tutti ne escono ben caratterizzati. Mariani, anche in un palco vuoto e sconfinato, riesce a gestire bene lo spazio, ampliandolo gradualmente ed equilibrandolo con sapienza. Meno riuscita la resa ritmica della recitazione, penalizzando molti elementi comici e la messa a fuoco dell’azione, specie quando succedono più cose contemporaneamente: capita che lo sguardo dello spettatore sia attirato in un punto diverso da quello in cui sta per accadere qualcosa.
Ben scelto il cast, diretto da Francesco Ivan Ciampa, che sostituisce Daniel Oren: la sua bacchetta pacata ci porta in una Parigi di sogno, in cui i momenti di lirismo prevalgono rispetto ai più buffi. Fabio Sartori è un Rodolfo dalla fisicità d’altri tempi (appare di spalle e la mente va al suo modello, Pavarotti): sfoggia una voce schietta, pulita e un’impressionante facilità negli acuti. Lo affianca la Mimì di Jessica Nuccio, soprano delicato e raffinatissimo nella dinamica: a tratti, risulta pure troppo maliziosa, quasi ad assecondare quella caratterizzazione civettuola (subito rinnegata) che l’amante le attribuisce in un momento di disperazione.
Povera Mimì, donna tormentata, seppure amata da chi non riuscirà a starle accanto nemmeno quando sarà vinta dalla tisi. Le riflessioni sulle donne pucciniane sarebbero lunghe e articolate, ma è piuttosto evidente il conflitto tra due modelli (quello virtuoso di Mimì e quello di Musetta, che finisce per ridicolizzare le istanze femminili e femministe) e per quale dei due il compositore lucchese provi più empatia. Come per Liù, Butterfly, Manon, anche per Mimì la morte è compimento massimo della virtù e, nell’opera di fine Ottocento, il regalo più grande che si possa fare a un personaggio femminile.
Anche in questo caso l’Opera di Firenze è costretta a un allestimento poco elaborato: quell’enorme torre scenica che permetterebbe di fare cose prodigiose e mai viste in Italia, è ancora vuota. Mancano un po’ di milioni (sui 270, ci par di capire) per completare un teatro inaugurato cinque anni fa, ancora limitato negli allestimenti. Intanto l’articolo 24 della legge 160/2016 mette a rischio 156 posti di lavoro nelle fondazioni lirico-sinfoniche in tutta Italia, di cui 28 solo a Firenze: prima delle recite di questa Bohème, un gruppo di lavoratori con in mano i cartelli di tutte le città in cui si abbatteranno i tagli ha letto un messaggio rivolto al ministro Franceschini perché il comparto è a rischio, dalla formazione alla messinscena.