«È uno spettacolo un po’ buffo e un po’ triste», esordisce una bambina nella fila dietro la mia, e mai critico è stato più sintetico e accorto nel recensire uno spettacolo.
Si tratta di Solitudes della compagnia basca Kulunka Teatro, pièce in maschera che mescola la malinconia alla gioia, la modernità a tempi ormai passati, senza mai, mai, mai inciampare in banalità.
Narra della vita, di quella che abbiamo già trascorso e di quella che verrà, di quando ci sentiremo soli nella nostra quotidianità, ma anche di quando saremo vicini ad altre persone, con i nostri apparecchi elettronici, le nostre protesi emotive.
Un turbine di sentimenti ci viene mostrato dalla storia di un uomo anziano che accompagna la propria routine tra un simpatico bisticcio e una partita a carte con la moglie. Giornate che descrivono l’attesa: una distensione del tempo, intervallata da un cambio repentino del canale televisivo o da una mosca che, incontenibile, ronza per la casa.
Sino a giungere, poi, all’inevitabile trapasso di lei, che lascia, lui, solo a districarsi tra un figlio poco presente e una nipote troppo impegnata a chattare al telefono, per comprendere l’importanza dell’esserci, ora, in quel momento.
Essere soli, sentirsi soli, alla ricerca di un compagno di giochi che possa condividere anche solo un attimo della propria vita, per fare una banalissima partita a carte. E, fatalmente, non trovare nessuno, se non una prostituta a pagamento.
Il gioco degli equivoci si innesca. Il figlio comprenderà troppo tardi le richieste di aiuto del padre, quel voler condividere un momento ludico insieme. Al vecchio uomo non resta che la propria triste solitud, nella casa arredata con carta da parati, un tavolino, una vecchia televisione e una mosca che gironzola per casa.
La scenografia divide in due parti il palcoscenico: sulla sinistra l’interno domestico, reso con due pannelli ricoperti di carta da parati marron, come direbbe un’attempata e benestante zia piemontese; a destra, tutto ciò che accade fuori, costituito da un semplice praticabile che, nella parte inferiore, rappresenta un muro di una zona malfamata della città, mentre, sopra, diviene passeggiata sul mare con parapetto.
Tableaux vivants che passano da momenti di estrema poeticità ad altri di immensa ilarità. Come la scena in cui marito e moglie giocano, quasi si trattasse di un duello da Far West, con movimenti calibratissimi al ralenti e musica di sottofondo, inclusa la di lei vittoria, siglata dal grembiule rovesciato sul volto, da autentica goleador.
Non c’è parola, non c’è verso: pura immagine a descrivere e narrare, attraverso la staticità della maschera che, grazie ai cambiamenti della luce, ottiene espressione, vita, emozione. Il paragone con i tedeschi della Familie Flötz sorge immediato: a questi, Kulunka non ha nulla da invidiare, anzi. Il pubblico rimane totalmente sorpreso nel vedere solo tre giovani attori (José Dault, Edu Cárcamo e Garbiñe Insausti) uscire da dietro le maschere dei ben otto personaggi. Questa è la necessità del fare teatro, del cercare di creare qualcosa di bello con poco, con una storia che funziona e che, soprattutto, emoziona.