14 febbraio 2015, San Valentino, in televisione c’è anche la finale di Sanremo. Il nazional-popolare impera e vince. Ma un manipolo di spettatori, irrispettoso delle convenzioni prescritte, ha deciso di abbandonare il divano domestico per affrontare le seggiole teatrali della sala Cieslak del Teatro Era nel Parco Jerzy Grotowski di Pontedera, per vedere uno spettacolo tratto da Dostoevskij. In scena Cacá Carvalho, regia di Roberto Bacci. Probabilmente un manipolo di disadattati nostalgici del passato splendore dell’Est. Hanno lasciato il proprio divano per ritrovare in scena un altro divano, quello del protagonista di Memorie dal sottosuolo, drammaturgicamente riscritto da Stefano Geraci e reintitolato 2×2=5 L’uomo dal sottosuolo.
Anche se in realtà il divano non si rivela immediatamente all’occhio dello spettatore, subito attratto, piuttosto, dalla pancia, dal corpo voluminoso dell’attore che inizia a raccontare le sue memorie, la sua condizione di impiegato crudele, di uomo cattivo, di persona sconfitta. Motivando il proprio comportamento con un groviglio di psicologismo ottocentesco caro a Dostoevskij e ai suoi lettori. Dietro il divano, un tavolino e, poi, una scala che porta verso una piccola finestra da cui l’ex impiegato spia il mondo esterno. Siamo sotto il livello della strada. E, così, attorno a questo divano sotterraneo si dipanano le azioni che la regia ha considerato necessarie per accompagnare il racconto. Non sta quasi mai fermo il nostro uomo del sottosuolo. Sottolinea e accompagna ogni frase con un gesto, un movimento, una camminata. Come se quello che sta dicendo non potesse essere ascoltato senza il coinvolgimento del proprio corpo. E, in teoria, sarebbe giusto. Ma, in realtà, le azioni scelte sono a volte didascaliche, altre ridondanti oppure contraddittorie. Con il risultato di creare come un rumore di fondo, dato dal continuo affaccendarsi, che rende tutta la confessione poco credibile, artefatta ed evidentemente “teatrale” nel senso brutto del termine. Come se a ogni passo si cercasse una soluzione utile a movimentare la scena senza un vero rigore formale. Per esempio, si invita uno spettatore a sedersi in scena, poi appare dalle quinte un tecnico che spiaccica una torta in faccia al protagonista, senza una vera necessità drammaturgica… cercando di arrabattarsi per arrivare in fondo.
Infatti, dopo un po’, al sottoscritto componente del manipolo viene da chiedersi che necessità c’era di mettere in scena il racconto di Dostoevskij. Cosa poteva dare il teatro che la lettura già non dava. Per il sottoscritto, non certo nostalgico dei dubbi splendori dell’Est, c’era la speranza di vedere contestualizzati e relativizzati quei rocamboleschi giochi psicologici, tipicamente ottocenteschi, così cari alla piccola borghesia del tempo ma certamente superati e metabolizzati dalla classe impiegatizia contemporanea (presa da ben altri rocamboleschi pensieri esistenziali). Mentre, invece, si è cercato di riproporre la visione della condizione umana indicata da Dostoevskij come un dato assoluto, valido per ogni epoca e per ogni luogo. Atteggiamento ottocentesco anche questo. Come quando l’Occidente, nella sua fulgida ignoranza, poteva ancora essere convinto di essere il giusto centro del mondo. Atteggiamento arrogante che certo teatro coltiva ancora nei confronti di tutto ciò che è esterno al proprio punto di vista, arroccandosi in un presunto spazio salvifico che, in realtà, ripropone i miasmi tipici di ogni sottosuolo contemporaneo: l’odore di chi cerca di sopravvivere a scapito del prossimo e con quello che arriva dall’alto, cercando di arrabattarsi.
L’importante è riuscire a farsi un bel divano da cui sorridere agli spettatori paganti in cerca di alternative.