Il Teatro Carlo Felice propone, in questa primavera avanzata, la ripresa di Tosca con la regia di Davide Livermore, lavoro che inaugurò con successo la scorsa stagione. Un riallestimento particolarmente atteso, soprattutto per il debutto nel ruolo di Cavaradossi da parte del tenore Francesco Meli, che torna nella sua città natale dopo gli allori scaligeri per Giovanna d’Arco e I due foscari. La grande attesa nei suoi confronti è ottimamente ripagata, giacché il cantante conferma e, forse, addirittura supera le aspettative: la voce, calda e corposa, affascina il pubblico grazie a un’emissione ben controllata e un suono pieno ed elegante. Interminabili ovazioni per lui, già nel primo atto, fino all’inevitabile bis di E lucevan le stelle: il suo Cavaradossi risulta più eroico del solito, guadagnando, anche drammaticamente, una centralità da protagonista. Un po’ in ombra, dunque, Amarilli Nizza, con una performance vocale apprezzabile, seppur evidentemente a disagio per le insidie della scenografia: il soprano ci regala una Tosca più insicura che gelosamente tirannica, donna talmente presa dalle proprie fragilità che a malapena rivolge lo sguardo all’amato pittore. A tratti davvero spaventoso, lo Scarpia di Angelo Veccia è ipocrita e spietato: la sua prova vocale è corretta e ben intonata, ma quando la voce deve confrontarsi con coro e orchestra, viene sovrastata. Sul podio, Dimitri Jurowski, bacchetta rilassata che, a tratti, sembra smarrire la perfetta sintonia tra buca e palco.
Vera protagonista è la gigantesca pedana, elemento unico di una scenografia firmata anch’essa da Livermore. Figura irregolare e quadrilatera, è deformata in verticale come se due angoli cercassero di sfuggire verso l’alto. Bianca e in apparenza marmorea, ruota su sé stessa come a voler intrappolare i personaggi, piccoli insetti in balìa di una vicenda che li mette alle strette. D’altronde il libretto di Illica e Giacosa (ripreso dal dramma di Sardou) racconta di quattro personaggi in bilico nelle poche ore che ne precedono la morte: la macchina scenica di Livermore evoca proprio tale instabilità, specialmente quando ruota su sé stessa e i personaggi sembrano fluttuare nel vuoto, spostandosi per assecondare o contrastare il terreno che scivola sotto i piedi. La pluralità di piani visivi permette di mostrare la tortura e la prigionia di Cavaradossi tra i sostegni scuri di quel mondo sospeso. Sullo sfondo vengono proiettate immagini del sacrificio di Cristo o, più spesso, elementi ambientali come un cielo torvo, un panorama romano o l’affresco nella cupola della chiesa di Sant’Andrea della Valle, dove si svolge il primo atto.
La regia (in quest’occasione ripresa da Alessandra Premoli) procede con suggestivi simboli iconografici che segnano la fine di ogni atto: il coro, sotto il marmo, schiacciato dal peso di clero e nobiltà; Tosca e il cadavere di Scarpia posti verticalmente agli estremi; la protagonista minacciata dall’angelo all’apice della scena e, contemporaneamente, già precipitata al suolo, raddoppiata da una controfigura. L’allestimento non è certo rivoluzionario, ma non lesina sorprese e risulta visivamente ricco, per uno dei titoli più frequentati del repertorio pucciniano con cui il rischio del già visto è sempre dietro l’angolo.
Applausi entusiasti del teatro pieno, con grandi ovazioni per il profeta in patria Meli e il piccolo Thomas Bianchi nel ruolo del pastorello. Qualche contestazione per la protagonista dopo il Vissi d’arte, piccolo strappo ricucito da un caloroso applauso finale.
ph. Marcello Orselli