Ed eccoci nel cortile del carcere di Volterra. Rinominato Spazio Artaud. Dove ormai da alcuni anni si svolgono gli spettacoli realizzati dai detenuti del carcere sotto la regia di Armando Punzo.
Lo spazio è allestito come l’anno passato: tante croci di legno di diverse misure, scale anch’esse di legno e un letto nella zona centrale dello spiazzo a cielo aperto. Il pubblico sta su due lati del rettangolo scenico. L’eco metallica di stoviglie lasciate cadere, e il tonfo dei passi di uno dei diversi personaggi presenti nella scena, accolgono l’ingresso degli spettatori. La prima cosa che si nota è la difficoltà a capire quale sia la zona, o il personaggio, su cui indirizzare la propria attenzione. Mancano le luci teatrali che normalmente indicano quale sia il fulcro dell’azione. La luce del sole mette tutto sullo stesso piano.
Una voce registrata dà il via alla rappresentazione che si svolge con la stessa, lenta cadenza ritmica di una processione da festa di paese, per tutta la durata della performance. Diverse figure attraversano lo spazio, da sole o in gruppo, in abiti o accessori che alludono a un immaginifico 1600.
Solo due figure femminili, un bambino e un signore vestito di nero (il regista medesimo) hanno abiti “moderni”. A volte si formano dei quadri viventi. L’uomo in nero accosta il proprio volto, microfonato, a quello di un personaggio permettendogli, così, di amplificare la propria voce. Si susseguono, quindi, con la cadenza recitativa di un rito sacro, diversi frammenti di testo tratti per lo più da La tempesta di Shakespeare.
Poco rimane, però, di tutti quei versi. Resta invece negli occhi la processione dei corpi a dorso nudo dei detenuti-attori. La loro presenza fisica va ben oltre il personaggio che dovrebbero impersonare. Anzi: il personaggio viene quasi completamente cancellato, dimenticato, rimosso dalla concretezza di questi corpi scolpiti, “palestrati”, dai quotidiani esercizi permessi nella detenzione.
Anche il tema dello spettacolo passa in secondo piano come l’eco delle stoviglie lasciate cadere e al quale non si fa più caso. La tempesta di Shakespeare sembra quasi solo un pretesto per mettere in scena l’esistenza di questi corpi reclusi che si fanno teatro. Tutta la performance è così una sorta di grande travestimento teso a svelare, come ogni maschera, quello che non si riesce a mostrare in quella condizione che viene considerata di normalità. In questo caso si svelano i reclusi, i separati, i colpevoli di reato “normalmente” nascosti alla vista dei “liberi”.
La forte presenza delle croci innesca facili analogie cristologiche: i poveri cristi rinchiusi dietro le sbarre. Come l’incedere cadenzato con il quale viene attraversata la scena e il recitativo monocorde con il quale vengono declamati i testi fanno pensare a certe rappresentazioni sacre di cui si trovano ancora tracce nelle feste patronali del sud Italia.
Sorprende che nelle note di regia non ci sia nessun riferimento a questa tradizione, anche se si legge che “Tradire la forma che Shakespeare ci ha consegnato è l’unica possibilità che ci è data” per andare oltre un poco chiaro “errore drammaturgico” del bardo.
Come sorprende negativamente la presenza del regista-uomo-nero che “amplifica la voce” agli attori-detenuti. Pare evidenziare drammaticamente il rapporto di potere che sta alla base di questa esperienza teatrale come alla base del peggior teatro di regia. E non pare che questo possa essere un bell’esempio di “città ideale” (tema del festival di quest’anno) quanto, piuttosto, la dimostrazione di impotenza di questa regia di riuscire a immaginare altro da quello che già esiste. Impotenza dichiarata nelle ultime righe delle note registiche: “Li [in Shakespeare]vige una ferrea coerenza, qui l’incoerenza, l’illogicità, l’impossibile, lo straripamennto dagli argini. Come Dèi che guardano dall’alto la follia degli uomini. Il delirio di onnipotenza di Shakespeare. E il mio sogno di impotenza”. Dichiarazione che comunque poco salva la qualità teatrale della performance.
Alla fine come sempre grandi applausi, meritati, per gli attori detenuti: alla loro esistenza.
[Sullo stesso spettacolo, leggi lo sguardazzo di Gemma Salvadori]