In un panorama lirico in cui dominano coproduzioni e riallestimenti, il Teatro Goldoni di Livorno decide di aprire la stagione lirica con un nuovo allestimento interamente realizzato con forze interne. La popolarità (e d’altronde così si chiama la trilogia di cui fa parte) del titolo compensa il rischio della scommessa della Fondazione: La traviata di Giuseppe Verdi. La storia di Violetta Valéry è spostata negli anni Sessanta in una scenografia, quella firmata da Sergio Seghettini, ricca di richiami cinematografici: ci si muove tra salotti da Dolce vita e villa in campagna con una piscina che fa tanto Sunset Boulevard. Fuori da una finestra e dietro un velo, nel finale, si strizza l’occhio allo spettatore labronico facendo apparire uno scorcio dello stesso teatro Goldoni.
La protagonista della serata è stata l’Orchestra della Toscana, mai così in forma come in quest’occasione. Al suo debutto nella città dei Quattro Mori, il direttore Carlo Moreno Volpini regala una performance memorabile: la perfezione dei tempi orchestrali è percepibile anche dall’orecchio più inesperto. Certo, chissà quante volte l’ORT ha eseguito quest’opera: ma, in quest’occasione, fortunato è chi può veder la buca e incantarsi dalla precisione dell’organico che si riflette nei gesti decisi del Maestro.
Una perfezione talvolta vanificata da alcuni cantanti secondari che, nei rari interventi, perdono il tempo o si rendono, francamente, ridicoli. Ci sentiamo intimamente in imbarazzo quando è in scena Emanuela Grassi (Flora) che ha un approccio al canto quantomeno personale. Il trio protagonista è apprezzabile e compensa questi (per fortuna pochi) momenti. Silvia Pantani è una Violetta elegante e disinvolta: la sua performance è impeccabile, ma non prende mai un rischio. Ci spaventa un po’ l’Alfredo di Angelo Fiore, debole nel primo atto (in Croce e delizia sembra mugolare un falsetto), ma che, dal second atto in poi, abbandona la tensione e ci regala bellissimi momenti. Ci dispiace non aver visto il corrispondente del secondo cast: chissà se Giuseppe Distefano sarà un tenore all’altezza dell’ingombrante nome che porta. Preciso e potente quanto l’orchestra, Ra Hyun è un Giorgio Germont granitico e severo.
La regia di Renato Bonajuto è impegnata, più che nell’esplorazione degli affetti dei protagonisti, nel tratteggiare l’ambiente mondano in cui si muovono. Una festa in un attico piuttosto elegante nel primo atto; un salotto di design nel secondo, per una festa più volgarotta, con uno strip-dancer. Ad alternare queste scene corali, l’isolamento: dapprima quello, sereno, in una villa con piscina; più tardi in un ambiente onirico. Nel terzo atto, per la morte della protagonista, si ha un contesto astratto, nero, in cui i personaggi intorno alla malata sono ricoperti da una sorta di polvere grigia e si muovono con fare spettrale. È vero che il regista, dichiaratamente, cercava una separazione netta tra la mondanità di Violetta e la solitudine delle ultime ore della sua vita, ma questo passaggio appare troppo incoerente. Violento è il cambio di registro tra Annina che va in giro seguita da un barboncino, e la stessa domestica dall’atteggiamento straniato di fronte alla Violetta sofferente. La protagonista, per tutta l’opera, è quasi disincarnata: non è travolta dalla passione (Amami Alfredo è cantata con metà palco a separarla dal tenore), non tossisce (ma a questo ci pensa il pubblico) o dà segni di spessore interiore.
La sala era quasi piena e, dopo più di tre ore di recita (di cui 60 esageratissimi minuti di intervalli), ha lungamente applaudito questo apprezzabile allestimento, che ha il merito di trovare un’inedita ambientazione per l’opera verdiana: ennesima prova della versatilità della Traviata.