I re magi. O maghi. O marci.
Improbabili, scalcagnati, sconfitti. E buffi.
Hanno facce masticate dalla vita, scolpite da sfiga, delusioni, frustrazioni assortite. Stanno lì, in posa, a due spicci l’ora, nel tragicomico lavoretto rigorosamente al nero scovato per sbarcare il lunario, accoppiar pranzo e cena, in vista d’un ordinario Natale contemporaneo fatto di regali e panettoni. Altrui. A rendere, appunto, più bello e rassicurante (si fa per dire, date le facce) il rituale consumo pagano della festa, quella degli altri ça va sans dire, cui loro agognerebbero, anche da comparse, assistendovi, per adesso, da spettatori non richiesti e respinti.
La forma rodata del trio ridicoloso, declinato per l’occasione alla non inedita parodia evangelica, trova nuova applicazione nel Delirium Betlem che Alberto Salvi cuce da sarto comico addosso a Francesco Ferrieri, Riccardo Goretti e Massimiliano Loizzi. La tradizione del presepe (rappresentazione di matrice teatrale a prescindere dalle trovate eduardiane) offre il destro, pur nella derubricazione commerciale, a un articolato gioco di richiami, rimbalzi, slittamenti. Tre spiantati, disgraziati, men che probabili: paiono spuntati da una canzone di Jannacci. Tre facce, tre caratteri, tre attitudini: donchisciottesco e volitivo Loizzi, carnale e proletario Goretti, dubbioso e filosofico Ferrieri, lunare grillo parlante, occhio straniato ed esterno a mutar d’inquadratura gli scenari dipinti immaginati dai due compagni.
La grama realtà d’ingaggio natalizio è squassata dall’evento rivelatore che muta le prospettive dei tre: l’avvistamento (reale o immaginario, non è dato saperlo) della Cometa, il profilarsi, dunque, della possibilità di trovare un posto (e neppure di rincalzo) tra le pieghe di storia e Storia. Ovvio che il rivolgimento inneschi reazioni a catena d’impianto comico-surreale, supportate ben presto da sviluppi musicali: cantano, questi, e neppure male, modulando canzonette dai testi riadattati in un delirio semiorgiastico di note e parole. Il pubblico ride, apprezza non poco gli inserti più smaccatamente poppettari (e non coglie Piero Ciampi: peccato), ben seguendo i tre attori nelle trovate più (scientemente) cretiniste, quando il gioco sembra porre alla prova e in crisi i limiti del gioco stesso.
L’impressione è di generale incompiutezza: in quanto satira, ci pare che il morso stringa poco, esaurito com’è in una serie di trovate quasi gentili; in chiave comica manca più di qualcosa, per questioni o di fluidità (le prime assolute, in questi casi, sono ancora prove aperte) o d’assemblaggio degli interpreti. Il più a proprio agio pare Goretti, a tratti monnesco (il timbro ha un che d’un altro nobile conterraneo, Alessandro Benvenuti), ma pure l’ex Omino sembra un cavallo tenuto a freno nell’insistita dinamica drammaturgica di sobbollimenti e dilatazioni che giova, invece, alla verve del Ferrieri raisonneur.
Se l’obiettivo fosse quello di un intrattenimento con tracce d’arguzia, potremmo pure farci la firma: se, come crediamo, lo scopo era quello di proporre una (pur ridente − il riso, del resto, è tutt’altro che ignoto alla tradizione biblico-cristiana) riflessione sul sacro, l’impressione è, invece, di aver assistito a un’occasione mancata.