Sarebbe stato bello aver fatto un piccolo censimento di quante persone fossero presenti per Schubert e quante per il nome di Romeo Castellucci. In un qualsiasi teatro di prosa italiano i più avrebbero tifato per il compositore austriaco; al Teatro Metastasio di Prato, invece, la maggior parte era lì per il nome del regista e fondatore della Socìetas Raffaello Sanzio. Critici, attori e registi (qualche nome per fare gossip: Dario Marconcini, Roberto Bacci, Simone Nebbia, la compagnia Teatro Sotterraneo) in trepidante attesa davanti alla scatola nera per assistere alla prima, dopo il debutto al Festival di Avignone nel 2013, di Schwanengesang D744.
Palco vuoto, Alam Franco davanti al proprio pianoforte, posto a sinistra poco sotto, accompagna il soprano Kerstin Avemo: acconciatura anni Trenta, avvolta in un elegante tailleur grigio (non è quello di Camilleri, tranquilli, bensì un costume realizzato da Laura Dandoli e Sofia Tannini).
Sul fondale è proiettata la traduzione dei Lieder, mentre in proscenio l’artista è a tal punto concentrata sul proprio canto da trasmettere pathos e sofferenza all’inerme spettatore. La lunga attesa cui Castellucci lo costringe affinché “avvenga qualcosa in scena” è estenuante, motivo per cui non appena la giovane soprano inclina leggermente la testa, esso sussulta e si anima sulla poltroncina. E, quando la protagonista volge la propria schiena al pubblico, ci sorprende il timore di un’altra mezz’ora, che sappiamo mancare al termine della performance, sia recitata interamente di spalle.
La bionda artista, lentamente, accarezza il fondale, sintetizzando in un gesto le parole intonate: “dormi, dormi fanciullo”. Al termine del canto, in proscenio giunge una fanciulla dai capelli rossi che spiccano sulla tenue veste azzurra, che diviene contrappunto dell’altra presenz. Con movimenti cadenzati, che si fanno danza, Valerie Dreville recita ad alta voce alcuni versi dell’ultimo Lied, sino a quando s’accorge di noi, dello spettatore che, indifferente, la osserva. Si sente aggredita dal nostro sguardo, usurpata della propria identità di personaggio dolente; e “inaspettatamente” reagisce. Urla contro il pubblico la propria frustrazione, il sentirsi animale in gabbia: “cosa volete da me? Cosa guardate?”
Il tutto in un italiano sporco, quasi a rimarcare l’assenza di significato di parole ripetute meccanicamente, mero pappagallo; a qualcuno scappa una risata, proprio perché non si sente colpito dalla “presunta” aggressione. La quarta parete si lacera soltanto quando l’attrice, ormai chiusa nel proprio soffrire, attrae a sé il telo che ricopre l’intero palcoscenico, come volesse vestirsi ulteriormente della finzione, della maschera teatrale.
Flash di luce, accompagnati dalle detonazioni create da Scott Gibbons, formano memorabili istantanee finchè cade dal soffitto qualcosa che l’attrice non riesce ad afferrare; non ne comprendiamo bene l’entità, la curiosità arlecchina che alberga in noi ci invita a scoprirlo e la risposta viene palesata da un video (qui link) risalente alla performance avignonese. Nel penultimo flash, l’attrice indossa una maschera dalle sembianze di diavolo: è forse un richiamo all’origine del teatro e i suoi cornuti satiri? Non lo sappiamo, ma la nostra curiosità iniziale è sopita.
Tre i personaggi in scena per Castellucci: la cantante, il suo corrispettivo attoriale e infine l’interprete. Ed è proprio come donna della scena che umilmente chiede scusa per le parole espresse, del resto è solo un’attrice.