Marzo 2013: Graziano Gregori, fondatore, scenografo e autore aggiunto del Teatro Del Carretto, tiene una prolusione sul concetto di teatro sperimentale: maniche di camicia, pesante calata marchigiana, parla diffusamente della propria infanzia montanara. Sala sconcertata: dove vorrà andare a parare? Lentamente, eccolo condurre un’intima, abbacinante ricognizione del proprio immaginario, per poi spiegare cosa sia la ricerca teatrale, in termini a dir poco illuminanti: «Partire da un buio assoluto, senza mai far repertorio dei lavori precedenti», pena la negazione del principio stesso del ricercare.
Da qui ripartiamo con Ultimo Chisciotte, ultimo spettacolo della storica compagnia (dal 2013, il riallestimento di Iliade, più Le mille e una notte), primo senza il contributo dello scenografo: è dal buio, dal nero su tutto ciò che lo ha preceduto pur non potendo negarne la presenza, che procede questo canto del cigno visionario e stratificato, ennesimo parto della fantasia di Maria Grazia Cipriani.
All’apertura di sipario, l’immota marionetta, sin da prima visibile al lato, si desta: Ian Gualdani, androgino, sinuoso, è muto contrappunto coreutico all’azione; in perenne metamorfosi, abita la nuda scena, ora presenza muliebre dal crine liberato, ora marziale avversario del malconcio e scalcagnato Chisciotte Stefano Scherini. L’hidalgo, macilento, scavato in volto, trucco ostentato, sembra evocare il pinocchiesco Gatto di Ciccio Ingrassia quanto a sconsolata, segaligna spigolosità. La voce, calibratissima, profonda, ben microfonata, è rivolta esclusivamente al fulvo Sancho (Matteo De Mojana), compare e amico, spalla e confidente. Un’elegia dolente, insistita, caparbia riflessione sulla poesia: stella polare, pensiero costante, l’amata Dulcinea, idealmente rappresa nel dorato vestito sovrastante la scena, scarna quanto il protagonista.
Tutto promana dal buio, per ritornarvi, e i pensamenti del Quijote son numeri cui fa eco un Sancho più doppio che interlocutore: riempie di voce argentina e centratissimo canto il silenzio d’una sala col fiato trattenuto. A sigillare i picareschi sintagmi, le secchiate di polvere rubina rovesciate a terra da Gualdani, come sangue essiccato: sbuffi vermigli nello scuro disadorno della scena, accerchiata in alto da una corona di costumi teatrali, appesi, muto coro di assenze ad ascoltare i deliri del cavaliere.
Si celebra, così, l’inevitabile sconfitta del teatro, la sua ineluttabile vocazione illusoria, e, al contempo, il suo paradossale trionfo, la sua insostituibilità, nell’articolato gioco di rovesciamenti e rifrazioni che è, esso stesso, materia scenica pura. Il tutto si rivela commovente, disperato canto d’amore, indomita rivolta nei confronti di un’esistenza necessariamente segnata dal dolore e dalla morte. Questo Chisciotte, ultimo poiché estremo, assume così i tratti d’un testamento, lascito inesorabile quanto pulsante, autentico.
E in assetto ci paiono gli inserti musicali, quando a “spezzare” ironicamente il dettato colorandolo di pop d’antan (l’erotismo manieristico di Je t’aime, moi non plus), quando nell’accompagnare un insistito duello, estenuato ed estenuante, nella completa, ipnotica proposizione del Bolero di Ravel. Momenti di sospensione e respiro a puntellare una scrittura di scena che di carrettiano ha il tratto estetizzante e marionettistico, nella sopraggiunta liberazione di un’emotività meno grumosa, più efficace rispetto agli ultimi lavori, quasi l’afflato di morte, qui distintamente percepito, conferisse un’urgenza non inedita, ma ancor più pronunciata.
In un momento donchisciottesco per il mondo dello spettacolo, tra il film di Gilliam e altri allestimenti in arrivo, quella del Carretto si segnala lettura tra le più interessanti, acute e oneste. Il pubblico lucchese, non solo per l’affetto dovuto alla compagnia, applaude commosso: per una volta, a ragione.