Il Festival Pucciniano, per l’ultima recita di questo titolo, ospita la suggestiva Turandot prodotta dal China National Opera House di Pechino, la compagnia che dipende direttamente dal Ministero della Cultura Cinese. Le precedenti repliche facevano parte del fortunato allestimento firmato da Angelo Bertini: con il dolore nel cuore non possiamo dar conto del grande successo della coppia Giovanna Casolla – Rudy Park. Credeteci, affezionati lettori: non è stato per nostra mancanza.
L’allestimento cinese, diretto da Wang Huquan, ha il grande merito di trovare un ottimo equilibrio nel rendere l’alternarsi di momenti dal sapore trionfale (la fine del primo atto, l’ingresso nella reggia, il finale) ad altri più delicati e ricchi di pàthos (la morte di Liu, ma anche lo sgelo della principessa, per citarne alcuni). La scenografia disegnata da Ma Lianqing è grandiosa e imponente, capace di assecondare con grande dinamismo i cambi di scena all’interno degli atti. Una grande parete rossa e oro sul fondo, con due portali in mattoni che sbucano dalle quinte, forma l’impianto principale, ottimo per assecondare i cambi interno-esterno, abbastanza frequenti nell’opera. Le coreografie di Wang Quan danno dei tratti quasi da kolossal: si veda, per esempio, l’ingresso del boia Pu-Tin-Pao, circondato da servi-danzatori acrobatici. I curatissimi costumi realizzati da Zhao Yan non sono poi così lontani da quelli che potremmo vedere in altri allestimenti di alto livello anche qui in Italia. A eccezione del corpo di ballo e del coro delle voci bianche, tutte le maestranze vengono direttamente da Pechino: un notevole sforzo (anche economico) per rafforzare i legami con l’Asia, uno dei contesti produttivi, insieme al quadrante arabo, più promettenti nell’attuale panorama mondiale.
In quella variopinta tavolozza che il cast ci offre, se dovessimo scegliere un colore per il Calaf di Li Shuang, sarebbe il verde smeraldo: forte e deciso, anche se talvolta un po’ freddo. Peccato che il Maestro Yu Feng non sospenda la musica per gli applausi del Nessun dorma: un bis ci stava tutto. Indubbiamente grigio perlaceo è la voce delicata e raffinata di Wang Wei, soprano di bella presenza: apparenza esile, ma sempre a suo agio nel ruolo della protagonista. Un celeste chiaro, ma un po’ sporco, è la Liu di Yao Hong: le si spezza la voce in Signore ascolta, ma si fa perdonare ampiamente nel terzo atto. La sua voce negli acuti cala sensibilmente di volume, ma questo piccolo difetto dà ancora più delicatezza a quel personaggio così centrale per Puccini (difficilmente immaginiamo il sor Giacomo nell’empatizzare con una donna che non si concede). La regia di Huquan coglie l’importanza di Liù che, dopo la morte e il corteo funebre, appare come ombra sul muro e sale al cielo: questa inusuale ascensione ci fa sospettare che, nel sorprendente disgelamento di Turandot, ci sia l’ombra di una qualche forma di reincarnazione di Liù.
La dizione, in generale, non è come ci si potrebbe aspettare: si capisce abbastanza, anche se, prevedibilmente, molte R diventano L, creando anche qualche buffo fenomeno di ipercorrettismo (il nerr’anima mia di Turandot, ma non solo). L’esecuzione dell’orchestra cinese, guidata da Yu Feng, direttore artistico del teatro cinese, è vivace e impeccabile, complice anche la notevole puntualità del coro.
Il risultato è suggestivo non solo per l’imponenza, ma anche perché risulta evidente il profondo legame dell’opera pucciniana con la cultura cinese. L’orientalismo non si limita all’uso della scala pentatonica e delle dissonanze, ma è basato sulla melodia di un carillon proveniente dalla Cina, che il compositore ebbe modo di ascoltare a Bagni di Lucca e da cui trasse spunto per il leitmotiv della principessa. Nonostante Puccini sia il frutto più maturo di una forma espressiva – il melodramma – marcatamente occidentale, in questo allestimento è evidente che il suo risultato non è estraneo nemmeno alla cultura orientale: gli artisti sul palco non giocano a fare qualcosa che non sono, ma sono perfettamente inseriti in quella visione – favolistica, ma non stereotipica – delle atmosfere cinesi.