L’ultimo capitolo della Trilogia sull’identità di Liv Ferracchiati rispecchia in pieno l’intero percorso che l’artista umbra, con la compagnia The Baby Walk, sta portando avanti da qualche anno. Un eschimese in Amazzonia accoglie il pubblico a sipario dischiuso sulla nuda scatola nera; nel buio, si intravede un gruppo di figure, compatto, in pantaloncini corti: una piccola squadra di calcetto.
L’allestimento ha inizio con la stessa Ferracchiati che, munita di un microfono dal cavo lunghissimo, risponde alle domande incalzanti del coro alle sue spalle: «Mi vuoi scopare se sei maschio?» La formula scenica è la stessa di Todi is a small town in the center of Italy, in cui un narratore, microfonato, copre il ruolo di cerimoniere, introducendo argomenti o presentando nuove azioni.
Il gruppo di performer al seguito, invece, è come un coro greco che risponde e interagisce con i monologhi della protagonista. È un gruppo incalzante sia in senso fisico, dal momento che realizza continue coreografie, sia per le numerose domande e risposte che offre alla solista: monologhi sull’identità di genere, fortemente legati all’attualità, nei quali dal gioco di parole, spesso, nasce una nuova azione drammatica, come in un esercizio da laboratorio teatrale. Si cita la salviniana lesbica Elsa di Frozen, paragonandola alla beneamata Lady Oscar, ma pure il problema dei bagni per uomini, dove sono del tutto assenti i cestini della spazzatura, come se i maschi non avessero immondizia da gettare.
Del resto, cosa potrebbe mai fare un eschimese in Amazzonia? I casi sono due: adattarsi al clima e provare a comprendere quelle terre, nonostante lui sia abituato ad altro; oppure rimanere semplicemente sé stesso, un eschimese al sole. Il coro antico che rappresentava gli ateniesi, qui diviene la società tutta, un’Amazzonia (non è un caso che il nome venga associato alle famose guerriere da un solo seno) carica di pregiudizi e cliché, che risponde alla voce del protagonista solitario, dell’emarginato, escluso per il semplice fatto di essere un eschimese in una terra assolata.
I monologhi sono frutto di improvvisazione su canovaccio cui si contrappone la stesura fissa, precisa del coro, con una memoria ferrea e impostata. Quella di Ferracchiati è una drammaturgia fresca, giovane, accompagnata da un’altrettanto sbarazzina colonna sonora (si va da Vasco Rossi a Britney Spears) e che su tale aspetto fonda il proprio successo, giustificato da vari premi ottenuti (tra cui lo Scenario 2017).
La trilogia sull’identità giunge, dunque, al termine, dopo l’approccio “adolescenziale” di Peter Pan guarda sotto le gonne e il già più “maturo” Stabat Mater, focalizzato sulle relazioni di coppia in cui la figura della donna subisce una caratterizzazione a dir poco sessista. Un eschimese in Amazzonia, epilogo della serie, è quindi una sorta di testamento da parte di un uomo nel corpo di una donna, un lavoro sul sentirsi esclusi ma, al contempo, artefici del proprio destino. Ed è così che la regista e drammaturga, dopo esser stata in regia per i primi due allestimenti, scende in campo, letteralmente, vestendo la maglietta del calciatore preferito, quell’Oliver Hutton (Holly del manga e cartone giapponese Holly e Benji, due fuoriclasse) venerato da bambina. I compagni di tutti e tre gli allestimenti, nel finale, entrano in scena, vestiti a lutto: dicono del protagonista della storia, cui fanno il funerale per seppellirlo, per concedergli nuova vita e, soprattutto, una nuova identità. In Amazzonia.