Merita una riflessione ex post l’ultima fatica di Massimiliano Civica e Armando Pirozzi, Premio Ubu 2017 (ex aequo) per la drammaturgia.
Due attori in scena, Alberto Astorri e Luca Zacchini, a misurarsi coi rispettivi personaggi in una dialettica innescata sia dai drammaturghi sia dal regista. In rotta di collisione, due universi remoti: quello paranoico di Velonà, annoiato e disilluso docente universitario al tramonto, e quello più borderline di Nino, giovane ladro, marito e poi padre, digiuno di lettere, ma pure di pane, estraneo alle elucubrazioni solitarie del kafkiano professore.
Un tavolo, bianco, due sedie, rosse: semplicità che è quasi nudità, ostentata, così come quelle del disegno luci, uno statico rettangolo rischiarato, e dei cambi-scena, a vista, che frazionano, con asettica chirurgia, la lunga parabola temporale delle irruzioni del mariuolo nella solitudine domestica del professore. I salti temporali sono indicati da minuti aggiustamenti nell’asciutta recitazione degli attori, nei cambi di costume, a vista, che interrompono il flusso di coscienza delle parole: nello spettatore, sono ripetute le sconnessioni in rapporto sia al tempo della storia sia a quello del racconto. Motore del dramma, il ritrovamento, da parte di Nino, di alcune poesie che stimolano a tal punto la propria sensibilità da condurlo al mutamento; si convince, così, che se leggerà alla moglie in coma i versi scovati, potrà salvarla dalla fine imminente.
La messinscena è prepotentemente minimalistica: la vicenda viene destrutturata in una diegesi lineare, con un’operazione registica di ulteriore condensazione per un testo già di per sé assai scarnificato. Al contempo, la sfida di Civica-Pirozzi sembra quella di inscrivere, all’interno di un’estrema sintesi formale, una riflessione profonda sugli impulsi vitali e salvifici insiti nell’arte, nella poesia, nel teatro; impulsi, però, ignorati da una società malata di fretta e distrazione. Si delineano, così, gli orizzonti di un traguardo del quale razionalmente s’intravedono i contorni, ma la sensazione è quella di un’ostinata messa a fuoco, ex ante, ai limiti del pretestuoso, al di là del nobile obiettivo. Il personalissimo dubbio è che lo spettacolo risulti più un esercizio di stile, tanto colto e studiato, quanto compiaciuto.
È, questo, un quaderno da sfogliare in soli cinquanta minuti e che vorrebbe provocare lo spettatore, sfidarlo a individuare in un tessuto drammaturgico e registico impalpabile, come fosse di seta, il complesso groviglio relativo alle profonde motivazioni dell’estetica, quasi invitandolo a trovare il proprio personale bandolo della matassa, decodificando e attribuendo simbologie non del tutto immediate.
È possibile, ci chiediamo, esprimere ciò che ha provato a dire (riuscendoci) Virginia Woolf, nella Lettera ad un giovane poeta così come nel magma pulsante di un’estesa e vasta opera letteraria, condensare tutto ciò in un solo atto unico a suo modo definitivo?
Il risultato di questa ambiziosa operazione pare, piuttosto, la visione complessiva e frammentaria di una breve sequenza di episodi, di sketch che rischiano di elidersi, sino a diventare trasparenti, anziché richiamare emozionalmente lo spettatore alla complessa stratificazione di decenni, o addirittura secoli, di questioni centrali di estetica dell’arte, della lettaratura, della poesia e della creatività in generale. Ciò che ricordo, invece, a una certa distanza dalla visione, è la presenza in scena, così centrale, in senso sia visivo sia cromatico, di arance che rotolano per poi essere spremute, elemento comune pure all’ultimo lavoro di Korsunovas, Winter, approdato anch’esso al Fabbricone circa due primavere fa.