La nuova stagione lirica del Teatro Verdi si apre con uno dei capolavori più noti del compositore che dà il nome alla sala pisana: Rigoletto. Breve saluto delle autorità: il presidente del teatro Giuseppe Toscano annuncia un incremento del 9% sul numero degli abbonamenti, lo segue il sindaco Filippeschi che si rallegra per i dati confortanti a sostegno di una «visione culturale ampia e ambiziosa» e conclude il direttore artistico per le attività musicali Marcello Lippi (qualsiasi battuta sull’omonimia è già stata fatta, tranquilli). Quest’ultimo non cela il fatto che lo spettacolo inaugurale – stranamente – è un allestimento importato da Rovigo, e sottolinea l’importanza di un sistema di scambi produttivi sempre più saldo. Dopo il ricordo di Dario Fo, venuto a mancare due giorni prima, può salire sul podio la direttrice d’orchestra Gianna Fratta e iniziare lo spettacolo.
La scena si illumina gradualmente, dando modo agli anziani spettatori di cercare di indovinare – a voce alta, s’intende – se il risultato sarà di loro gradimento: alcune innocenti quinte nere («Ma è moderna anche questa?”», chiede un astante non senza apprensione) a cui seguono altri elementi bianchi a delineare un’ambientazione astratta ed essenziale («Eh sì, è moderna», si ode affermare da un’altra postazione, con più sicurezza).
La scenografia di Giulio Magnetto è composta da pannelli bianchi intonacati che si muovono nello spazio a simulare ora la casa di Rigoletto, ora quella di Sparafucile. Questi, insieme ai costumi (anche quelli moderni e poco connotati) di Mirella Magagnini, creano un mondo basato sulla dicotomia bianco/nero, suggerita dal libretto di Francesco Maria Piave. In una delle prime battute, Rigoletto è additato come «anima nera»: indosserà, quindi, un frac scuro, come il Duca di Mantova, i cortigiani, il sicario Sparafucile e Maddalena. Le uniche candide eccezioni sono Gilda e il conte di Monterone, colui che, offeso, scaglierà la maledizione che perseguiterà il giullare. La bicromia, rotta solo da alcuni sprazzi rossi, finisce per schiacciare soprattutto il personaggio del Duca: libertino impenitente, è vero, ma che grazie a Gilda si sente «spinto a virtù».
Ottima la composizione del cast: Rigoletto è opera tanto popolare quanto insidiosa, con tre ruoli molto impegnativi e almeno altrettanti comprimari di una certa rilevanza; rovinare tutto anche per un solo cantante è rischio concreto. Il trio di testa è guidato da Elia Fabbian, baritono energico e possente già apprezzato dal pubblico pisano; commovente la Gilda di Ekaterina Sadovnikova accanto a Roberto Iuliano, un Duca dalla voce più graffiante (con un timbro sporco dall’effetto naturale) di quanto ci aspetteremmo da un tenore. Antonio Di Matteo è uno Sparafucile dalla profondità sorprendente per età e fisico, affiancato dalla voce piena e corposa di Sofia Janelidze.
L’aspetto più interessante, nella regia di Federico Bertoni, è la resa scenica del coro di cortigiani, una massa nera che si muove compatta e fedele al Duca. Mentre il sovrano corteggia le mogli dei nobili convitati, il gruppo si volta di spalle, in un’omertà complice che sfocerà, poi, nella ruffiana complicità del rapimento dell’amante di Rigoletto, offerta al Duca senza nemmeno sapere che si tratta dell’amata incognita borghese. In questo melodramma è forte l’impianto drammaturgico, non solo per la fonte (nientemeno che Victor Hugo), ma anche perché il compositore di Busseto era particolarmente attento alla resa scenica. È celebre la dura replica alla censura che, proprio in quest’opera, si scagliò contro l’apparizione in un sacco del cadavere di Gilda: «perché ne vogliono sapere in questo più di me? Chi può dire questo farà effetto, e quello no?». L’allestimento, seppur non troppo originale e brillante, ha il merito di lasciare intatta la forza drammaturgica del lavoro di Hugo, Piave e Verdi.