S’ha un bel discutere delle eroine pucciniane e della certa qual maniera l’autore lucchese aveva acquisita nell’assecondare i gusti d’un pubblico affezionato agli irresistibili languori punteggianti il di lui repertorio. In tal senso, La rondine, nonostante la statura di minore e le peculiari condizioni produttive, rappresenta approdo notevole per la poetica amorosa del nostro: si torna a Parigi, teatro di Bohème, ma tutto è cambiato. Ancor s’avverte, vero, l’atmosfera gaudente da café, ma non per le scapigliate gesta d’aspiranti artisti: protagoniste, adesso, le grisettes, fanciulle d’umile origine giunte in città per affermarsi, col lavoro, primi podromi d’emancipazione, o assicurandosi buoni partiti. La bella Magda solo da lungi rammenta la Violetta verdiana: altra coscienza, pur nelle concessioni alla trama che la vuol, dopo il repente innamoramento coll’ingenuo Ruggero, pentita e ritrosa dinanzi alle di lui profferte nuziali, per tornarsene, indegna d’amore, alla vita precedente.
L’allestimento del Teatro del Giglio ripercorre in gran parte l’operazione del 2008, riprendendo le belle strutture di Rosanna Monti nonché la regia di Gino Zampieri per la riscoperta recente dell’operetta. In tal senso, v’è da intendersi: a Puccini poco interessava tale forma spuria e solo articolate vicissitudini contrattuali l’avevano trascinato nei pelaghi del genere. Ne consegue un esito peculiare e, in ciò, interessante: ben più opera di quanto si sia creduto, col sapiente innesto d’una movimentata varietà ritmica dovuta alla sperimentazione di balli che si stavano affermando al tempo: fox-trot, one-step, tango, oltre all’immancabile valzer, tributo alla commissione viennese del titolo. Buon gioco ha la direzione dell’Orchestra della Toscana da parte di Massimiliano Stefanelli, mossa e vivace, non sempre cristallina, ma comunque fedele all’esilità del costrutto.
La storia, rarefatta, si snoda in tre ambienti dominati da tonalità pastello: l’interno altoborghese del primo atto, il variopinto Bal Bullier dai contorni simili a una giostra (suggestivo il finale baluginante di nebbia mattutina), l’assolato verone ove si consuma il tragico (neanche troppo) finale. La Magda di Francesca Sassu è volitiva, sfuggente, quasi vi fosse (ne capiremmo i motivi) un vago cinismo nel gran rifiuto al Ruggero di Marcello Vannucci: la proposta dell’amante, il buen retiro in campagna ad accudir suocera e pargoli, remoti i fasti parigini, ispirerebbe alla fuga la più cieca delle amorose. Conoscendo la biografia pucciniana, arduo pensare che non abbia dosato un salace umorismo per questa femmina tutta novecentesca: salvare le forme palesando struggimenti, ma, soprattutto, salvar la vita evitando l’approdo rustico alternativo alla sperimentata mondanità.
Qui s’avverte la gran modernità dell’opera, unitamente all’appuntita caricatura dannunziana nel poeta Prunier (centratissimo ed efficace Francesco Marsiglia: una conferma), alla malizia riversata sul vacuo mondo dell’arte con cui si raffigura la serva Lisette (Chiara Peretti, apprezzabile) nella sottotrama comica, in un quadro d’insieme di tenue disincanto. Quando Puccini sottrae il soggetto dalle mani austriache affidandolo a Giuseppe Adami, la guerra divampa: inevitabile non presentire, nella sin troppo ostentata frenesia parigina, l’inquietudine e la distanza, quasi rossiniana, con cui si delinea un mondo tanto contemporaneo quanto alieno dalla realtà. Tradurre il tutto in uno spettacolo gradevole è merito che giustifica il plauso finale dell’unanime Teatro Verdi pisano.