Niente da fare: la musica è migliore quando imita il silenzio. Non il silenzio semplice, quello che tutti immaginiamo, ma l’esperienza del silenzio vero, fatto di rumori poderosi, melodie intrise di emotività e note che ricalcano pedissequamente l’indicibile della nostra presenza in uno spazio. In una parola, il sentimento. Oppure la sua totale assenza.
Slot Machine. Soliloquio dalla fossa inizia con un rumore strisciante che s’insinua in uno spazio buio, ancora spento. Il suono di una voce ventriloquiale arriva insieme al fascio luminoso di una torcia elettrica: ai suoni si mescolano baluginii su superfici riflettenti che rimandano indietro la luce, ne spezzano il raggio. La luminosità non è funzionale, non mostra niente se non la fonte stessa dalla quale proviene: il barbaglio bianco della torcia si manifesta a tratti sugli specchi, occhio che brancola nel vuoto e si rimbalza addosso. Quando un chiarore in grado di mostrare veramente qualcosa appare, cade come un tramonto dorato su dei minuscoli alberelli in miniatura, posizionati in quattro punti della scena come un recinto apparentemente protettivo.
È come se lo spettacolo iniziasse quando lo spettatore, per la prima volta, distoglie lo sguardo, andando a zonzo al di là della scatola riflettente costruita sul palco. Qui abita un personaggio senza volto che, ripetitivamente, riesce a donarci un’immagine che coincide col vuoto. Vuoto per chi? Non di certo per sé. La sua vocetta infantile ha la perentorietà di chi vuole stabilire delle regole ma, non potendolo fare sul serio, lo fa per gioco, in nome, anzi, di un gioco incomprensibile per quei non-giocatori estranei alla faccenda.
Lo spazio scenico elaborato da Ermanna Montanari sembra suggerire latentemente come, intorno a lui, vi siano sempre architetture urbane e sociali pronte ad assicurargli un obnubilante soggiorno: panorami simili in tutto alla quotidianità rifuggita, eppure diversi da quella quanto basta per alimentare un’illusione di spostamento.
Questo giocatore non cerca emozioni né rivincite: si sente diverso, quasi un santo in ritiro nella sua cella, il solo e l’unico a percepire un qualche Mistero, del quale però non ha visioni. Di qui, forse, lo strabismo con cui si chiede d’osservare il caso: da una parte, quest’uomo è un geroglifico, realtà oscura a noi estranea, latente nell’ombra, ai margini delle nostre vite; dall’altro, la sua condizione somiglia molto alla nostra. Per tutto lo spettacolo le immagini hanno l’unico scopo di moltiplicarsi senza mai affascinarci ma evocando la vita che manca: vengono in mente, invisibili agli occhi, gli specchi brulicanti delle Folies Bergère cha fanno da sfondo all’isolamento dei protagonisti in primo piano nei quadri di Manet; le attese immerse nel colore dei quadri di Hopper, dove le figure sono sedute di profilo per affondare lo sguardo altrove. Ma in scena l’unico altrove è rappresentato dalla terra tradita e svenduta su cui lo sguardo del personaggio e quello del pubblico si accavallano e distorcono reciprocamente, l’uno conquistato dalle sfumature dorate, l’altro mai rassegnato alla grettezza di un pensiero disumano al punto di tradire senza vergogna parenti e amici.
Nello spettatore la lacerazione continua fino e oltre il momento degli applausi, quando il volto dell’attore (Alessandro Argnani), finalmente in luce, rivela un’umiltà disarmante e un sorriso onesto che colgono di sorpresa e spiazzano, per qualche momento, quelle persone del pubblico ancora coinvolte nella difficile impresa di capire che no, non era noia quella avvertita in certi passaggi, e che invece, si, era reale disturbo quello che, in altri momenti, gli ha fatto allontanare lo sguardo in cerca di un dialogo con qualcosa che non fosse riflesso in uno specchio.
L’applauso arriva scrosciante quasi da tutte le parti. Quelli che, dubbiosi, non hanno applaudito in sala, forse lo stanno facendo adesso, rivedendosi.