L’edizione 2016 del Maggio Musicale Fiorentino, festival lirico tra i più prestigiosi d’Italia, si arricchisce con la prima esecuzione assoluta di Lo specchio magico di Fabio Vacchi, su libretto di Aldo Nove. Un incontro tra rap e musica colta che vorrebbe generare un confronto senza appianare le differenze. L’approccio di Vacchi a uno stile lontano dal suo è mediato dalle riflessioni, tra gli altri, di Georges Lapassade: lirica antica, melodramma e rap hanno in comune l’esplorazione del recitar cantando. A dare il via all’opera è Millelemmi, rapper fiorentino che qui perde la caratteristica inflessione locale per assumere un’accentuazione stran(ier)a riecheggiante l’Europa dell’est. Rappa anche Filippo Coffano Andreoli, danzatore che punteggia la serata con alcune performance che sembrano l’estrazione di un singolo momento da una coreografia più ampia. Entrambi si uniranno agli interpreti: il rap entra nei tempi e nei ritmi della partitura, mescolandosi nel finale allo stile aulico del coro e dei solisti.
L’allestimento è semiscenico: orchestra, coro e interpreti sul palco con il direttore. A insidiare la statica forma di concerto, un tulle alle spalle del Maestro, schermo per videoproiezioni. L’orchestra è in penombra, e si mescola alla live performance del writer Marco Tarascio (in arte Moby Dick). Purtroppo il trucco non funziona come dovrebbe e l’immagine video risulta difficilmente leggibile, doppiata, peraltro, sul fondale: il graffito è sbiadito, come l’individualità degli interpreti dietro il telo. Il risultato è molto più efficace quando vengono proiettate scintille o fiamme, e il rapporto tra immagine e ciò che filtra non è più oppositivo, ma in felice interattività.
Il libretto di Aldo Nove ha un messaggio forte e, paradossalmente, sfuggente. Parla di un passato che è presente e futuro, delle barbarie degli uomini (cantano in scena personaggi storici come Romolo Augusto, Alessandro II di Macedonia, Enrico Fermi e Aung San Suu Kyi) delineando una netta differenza tra buoni e cattivi: non a caso la dicotomia «bene… male» ricorre innumerevoli volte. Si evoca una galleria di uomini insicuri e dunque prepotenti, avari e infidi, pronti all’esclusione e alla guerra. La rigida opposizione crea dei cattivi dalla scarsa attrattiva. Il problema è che non vi ritroviamo niente che ci appartenga davvero e, dunque, non ci sentiamo chiamati in causa: si ha l’impressione di una piattezza dovuta a un eccessivo didascalismo, funzionale per dare ai buoni l’occasione di essere buoni. Si capisce chi è l’oggetto della condanna, ma non a chi ci si rivolge: il problema è l’arroganza nella gestione del potere, ma il pubblico è tenuto lontano dalla colpa, come una massa a cui spetta una silenziosa condivisione del j’accuse di Nove.
Pur sintonizzata sulla stessa lunghezza d’onda, la musica sembra offrire spunti più profondi, e forse anche ardui da cogliere nell’unica data all’Opera di Firenze. L’orchestrazione è ricca, ben sfruttata, comprendendo suoni metallici e stridenti ben inseriti in partitura. La musica, incantata e dunque incantevole, racconta l’ineluttabilità della guerra, il disastro incombente, la prepotenza dei pochi e la ragionevolezza dei molti incarnata nell’ingenuità infantile. Quando dà spazio al rap, l’orchestra si calma in una (apparente) sospensione, fatta di ritmi e timbri che riecheggiano George Gershwin. Sul podio John Axelrod, giovane patrono di molte prime assolute (50 negli ultimi quindici anni): la sua direzione è viva e frizzante, di vera discendenza bernsteiniana.
L’occasione di un confronto con la cultura giovanile sembrava preziosa, specialmente per l’approccio di Vacchi, né elitario né venato del senso di colpa di chi si sente in una torre d’avorio. Purtroppo, è il testo di Nove che sembra chiudersi in sé stesso, impermeabile, in una scrittura compiaciuta al punto da metter in ombra l’urgenza che sottende l’iniziativa. La regia di Edoardo Zucchetti, appoggiandosi forse sin troppo sul trucco dello sfondamento della quarta parete, presenta trovate interessanti, ma sicuramente l’opera risente della mancanza di un allestimento “vero”, in cui il potente immaginario evocato possa concretizzarsi anche in una dimensione scenografica e recitativa.
Reazioni contrastate nel pubblico, diviso tra buu e ovazioni.
ph. Michele Borzoni/Terraproject/Contrasto