Adattare o no i classici? Vinicio Marchioni, alla sua prima regia teatrale, si avvale del contributo artistico di una delle maggiori drammaturghe del momento, Letizia Russo, per rieditare Zio Vanja di Anton Cechov.
Il primo cambiamento si ha nel titolo, con l’aggiunta di quell’Uno, come a indicarne uno qualsiasi, amareggiato dalla vita e dal suo status a cui non riesce a ribellarsi. Non si tratta dell’unica variazione dal drammaturgo russo: la riscrittura sembra intuire una nuova possibilità, un’attualizzazione che potrebbe risultare interessante. Peccato che, causa una regia poco accorta, si tramuta in un esercizio “accontenta pubblico”. La tenuta originale viene trasformata in un teatro italiano all’indomani di uno dei tanti eventi sismici, mentre le difficoltà di mantenimento del podere diventano le avversità insite nella scena contemporanea. A rendere il tutto ancora più accattivante, il cast di attori provenienti dalla serie Romanzo Criminale. Si shakera il composto, ottenendo un bel pastiche che strizza l’occhio un po’ a tutti: agli acculturati per la critica sulla situazione della cultura, ai giovanissimi per il massiccio innesto televisivo, al pubblico agé cui si propone l’agognato classico.
Ce n’è per tutti i gusti allo schiudersi del sipario, anticipato da un grande boato a simulare la catastrofe naturale. La scenografia ci proietta dietro le quinte di un ipotetico teatro: costumi, strumenti, un tavolo e qualche sedia; un poster del La regina d’Africa, che diverrà foto ricordo della prima moglie di Serebrijakov (probabilmente interprete di una mise en espace della pellicola). Al centro dell’intero assetto va a sgretolarsi un muro di calcinacci e macerie, che ci permette di intravedere, sullo sfondo, il tanto amato ciliegio cechoviano, che durante la performance scandisce il passare delle stagioni. Si ha la sensazione che Marchioni avrebbe voluto dare un cambio repentino all’opera, ma non ne abbia avuto il coraggio, mantenendo, di fatto, il piede in due staffe.
Lo si evince anche dalla suddivisione drammaturgica dei personaggi in scena, due gruppi ben distinti: una parte più legata al testo originale (Sonja, Marija, Marina); l’altra, invece, più innovativa, con svariati riferimenti all’attualità (Vanja, il dottore, la seconda moglie Elena). Il testo originale è presente, seppur riadattato al nuovo contesto storico–geografico: dalla Russia ottocentesca all’Italia del Novecento (la vodka diviene grappa),il tutto guarnito di elementi contemporanei; per quanto in forma spesso ingenua, tra incitamenti, urla e altre facili soluzioni sopra le righe.
Pure sotto il profilo attoriale, Marchioni non osa: i personaggi sembrano come indirizzati, legati a determinate aree del palcoscenico, ma senza percepibili motivazioni, dando vita a movimenti che paiono assai incerti. Marchioni e Montanari ricalcano i ruoli, appunto, della serie tv evocata, incluso l’impiego, a tratti, di una calata romanesca mista a una dizione curata e puntuale (non a caso, al momento degli applausi, i ragazzi in sala urlano «Vai Libano, Vai Freddo!»). Gli ammiccamenti alla platea trovano il culmine nel didascalico inserimento di Se bruciasse la città, con l’effetto tanto di risvegliare gli spettatori assopiti quanto di scandalizzare, a causa della banalità della scelta, chi ancora presta attenzione. Ancora una volta l’incertezza e la non definizione giocano un brutto tiro e ce ne dispiace perché potevano esserci dei buoni presupposti.
Zio Vanja diviene, così, “uno”: ma, davvero, uno dei tanti, dimenticabile, e proprio per non aver osato abbastanza, per non aver neppure tentato di diventare “Lo” Zio Vanja. Peccato.