Un teatro, tracce di costumi da inventariare, una lunga quinta che profuma di polvere aperta su una breccia che sembra affacciarsi su un giardino. La scenografia, in corso d’opera, non varierà mai, tranne che per qualche dettaglio, a indicare la differenza tra giorno e notte, o il passare delle stagioni. Modifiche minime, più di contesto che di sostanza.
Un teatro, una famiglia, e il terremoto: le premesse con cui inizia lo spettacolo.
Vinicio Marchioni, regista e attore, scommette su un testo di Čechov, provando ad affondarci le mani con l’intento dichiarato di sporcarsi il più possibile, di avvicinarsi alla suggestione, annegare nella noia e nell’immobilismo. Nel farlo opera delle scelte: trasporta la vicenda dal casolare di campagna in un teatro, sostituisce l’epidemia di tifo col terremoto, ancorando la vicenda a un presente con cui lo spettatore sia in grado di empatizzare maggiormente. Mescola i piani temporali, vestendo alcuni attori come in una fotografia sbiadita, facendoli però ragionare su tematiche attualissime. La bambinaia Marina parla con spiccato accento meridionale, si beve grappa anziché vodka, e solo alcuni dei nomi originali sono ripresi, ricorrendo, ove possibile, al diminutivo, limitandosi, altrove, agli appellativi dottore (per Àstrov) e Magister per Serebrijakov. La domanda in conclusione è questa: perché tanta fatica nel gestire il dettaglio e lasciare quasi al caso il significato? Perché parlare con tanta convinzione di noia, famiglia, vecchiaia, dello scoprirsi una vita senza scopo, allo stesso modo con cui si descrive una giornata uggiosa? Marchioni sembra scegliere di avere paura, finendo per osare quel tanto che ritiene opportuno e inserire Uno nel titolo.
L’adattamento di Letizia Russo non sacrifica niente ma aggiunge, dilata e, in un certo senso, stempera, attenuando quelle tinte che macchiano di infelicità la vita dei personaggi. Marchioni e Francesco Montanari, rispettivamente Vanja e il dottore, sono carini da osservare, se ne percepisce il legame figlio di altre esperienze vissute insieme. Il primo appesantito dal peso dalle circostanze, dalle responsabilità imposte e dalle ambizioni frustrate; il secondo, logorato dal dovere, uomo dall’anima sana che finge essere malata. Ma se i due risultano essere in un certo senso più vivi, il resto della compagnia si muove appiattita sul fondo. C’è qualcosa di stridente che ricorda la finzione a cui si assiste, e che lascia ricadere nella realtà della poltrona su cui si è seduti. Sembra di osservare una foto sovraesposta: picchi d’ansia, di rabbia, di angoscia, di dolore, con una ridondanza di sentimento, una volontà al voler soffrire più di tutti, di patire silenziosi o gridati dolori, quasi reclamandone il primato.
La messinscena termina con il monologo di Sonia, la più giovane della famiglia, che ripete meccanicamente il brano, scandito dal pianto soffocato che le trabocca in gola. Questo dolersi cantilenante è, forse, l’aspetto più deludente, perché sembra svuotare di senso qualcosa che pesa quanto il mondo, quanto una vita spesa nel nulla. Čechov decide, infatti, di affidare queste parole non al vecchio e disilluso protagonista, Vanja, ma a una ragazzina, siglando un monologo straziante che racconta la promessa di ricordare il dolore di un’esistenza non vissuta nelle dolcezze di una misericordevole morte. Volendo descrivere sinteticamente il finale: tutti se ne sono andati. Vanja e Sonia siedono illuminati da tinte calde. Vanja si strugge per un numero preciso di secondi, Sonia si lamenta per il tempo restante. Buio.