È un fatto che tra gli spettacoli più discussi degli ultimi anni s’annoverino assoli estremi, quasi che, all’alzarsi della posta, la solitudine assuma i contorni dell’urgenza. Questo il pensiero a margine di Kamikaze Number Five, tutto per tutto con cui Woody Neri affronta un testo ad alto coefficiente di rischio, orazione visionaria e febbricitante d’un milite votato al martirio colto poco prima della morte, sua e di altri (innocenti?), strumento esiziale per una postrema glorificazione.
La nudità scenica è presto doppiata dall’attore, prima in tenuta ginnica, che passa all’ostentazione corporea più smaccata col solo riparo d’un variopinto velario di stemmi calcistici: la solitudine oggettuale è rifrazione tra milite e teatrante, anch’esso dinanzi al gioco di morte che è la scena. Prova muscolare, di ampio ventaglio dinamico, quella di Neri: la recitazione, inquieta e roboante, qui e là s’incrina con minuzie ironiche, rovesciamenti tonali ai limiti del virtuosismo. Echeggia indiretta la lezione beniana, nello sciente birignao misto a rapidi crescendo per dissonanti fratture sulle violente sonorità a punteggiare il dettato verbale. La robustezza tecnica s’abbina a una partitura gestuale che sonda i limiti del fattibile: reiterate minzioni (altro omaggio a CB?) nel secchio a lato, ostensione svergognata d’ogni anfratto di sé, rilancio indomito a non lasciar nulla d’intentato.
L’impegno profuso, però, giova solo in parte a un testo il cui coraggio s’incaglia nei pelaghi dell’intenzione, quasi che, nello smarcarsi da identificazioni secolari (ogni riferimento è volutamente vago), ne esca debilitata l’aderenza necessaria tra il piano dichiarativo e quello simbolico (il parallelo attentatore suicida-attore). Parla, parla e parla, il miliziano sacrificale, giostra immagini e interlocutori: il padre, gli odiati nemici, il fratello, terminale del dialogo più allucinato. Ne perdiamo, via via, le tracce: la narrazione suona confusa o ridondante, e il caleidoscopio verbale si dissolve nel bianco d’una sterile autoreferenzialità. Sembra parlare a tutti, ma non allo spettatore, al di là dell’aggressione scenica o del malizioso gioco con la quarta parete.
Il problema non è occuparsi o meno della condizione dell’attore: GabbiaNo, ingegnosa rilettura cechoviana realizzata da Neri due stagioni fa, lo dimostrava e, per paradosso, con più coraggio. Già vi pulsavano le inquietudini dell’artista dinanzi all’abisso; ma la riflessione sul teatro era (anche e soprattutto) riflessione sulla vita, sulla sua invivibilità, emergenza che abbacina, in tema d’assoli, nelle abrasive e dolenti prove di Roberto Latini. Il dubbio, al netto delle comprensibili attenuanti da debutto, è che questo kamikaze, più che coraggioso, rasenti la temerarietà, se non l’incoscienza. E, forse, lavorare un testo simile in chiave post punk con chi dice di non interessarsi a «creare spettacoli belli» (affermazione di Giuseppe Isgrò a margine di Adulto) potrebbe costituire un lusso poco sostenibile in termini di mera efficacia, almeno in questo caso.
Gli applausi del Bolognini sono un condivisibile premio all’onestà riconosciuta allo stremato kamikaze. La stessa onestà, però, ci porta a pensare (pure rispetto ai martiri veri) che non tutti i gesti estremi traggano ragione dal semplice fatto d’esser tali. In fondo, anche la critica è un salto nel buio, non richiesto, mal tollerato e con assai meno attenuanti condivise rispetto all’atto da cui deriva, ma non ci sogneremmo mai di farlo pesare a chi legge.