Mentre fuori ha inizio il Festival della canzone italiana, e inutilmente alcuni edotti spettatori additano la mancanza di “amici di visioni” alla kermesse sanremese (ma davvero?), l’arlecchina in questione si siede per assistere a Il volo di Michelangelo, uno spettacolo che tenta di sviscerare la vita di una delle figure più irruente della storia dell’arte. A Seravezza, il maestro è da sempre considerato con pregio anche per i suoi viaggi presso le vicine cave di Carrara, quindi gli autoctoni sono ricchi di aspettativa.
Il sipario si apre e sul fondale si presentano tre silhouette: sulla sinistra, un uomo di spalle, una mano verso il cielo; al centro, una giovane violoncellista intenta a suonare; a destra, una donna anch’essa in posa. È Beatrice Visibelli a prendere parola, declamando la nascita del “divino geniaccio dell’arte”. Inizialmente, pensiamo sia solo una prima concessione storica, giustificata dall’eloquio poetico, ma ci sbagliamo: l’intero pezzo sarà strutturato in metrica, soluzione alquanto peculiare.La scena è costruita da casse in legno, posizionate in maniera simmetrica: tre in proscenio, altrettante sul fondale; a più riprese assumono la funzione di veri e propri pulpiti dai quali recitare. Sullo sfondo, un semplice telo bianco ove saranno proiettate omogenee tinte di luce: dall’oro al rosso porpora, dal blu della notte al verde. I costumi richiamano quelli dell’epoca: un abito lungo color vermiglio con decori in oro per lei e un classico spezzato nero scamosciato per l’uomo.
Tra un deittico e l’altro, si ricreano le vie fiorentine con i monumenti dell’artista, le pale d’altare per Bologna, le sculture per Roma: un viaggio che passa dalla Pietà al David, dalla sfida con Leonardo per le famose Battaglie di Anghiari e Cascina alla volta della Cappella Sistina. Il testo di Nicola Zavagli è notevole, riesce a racchiudere in un’ora di spettacolo l’intera vita dell’artista caprese, così ricca di aneddoti e curiosità. Non si può dire lo stesso di una regia forse troppo impostata e più legata alla drammaturgia che ai movimenti scenici, fatti di salite e discese dai piedistalli (che vorremmo interpretare come embrionali impalcature).
È l’ironia a far da padrona, regalando divertenti momenti di ilarità, soprattutto resi con paragoni alla contemporaneità dove gli Ignudi diventano anacronistici body builder, la diatriba con Leonardo Da Vinci è vista come un derby calcistico, e un Papa può anche essere argentino ma l’importane è che sia povero. Si sente la mancanza della “poesia”, ossia di occasioni in cui lo spettatore avverta in sé quella sensazione di catarsi spesso richiesta all’arte performativa. I momenti non mancherebbero, come quando i due attori si adagiano sulle assi del praticabile, al centro scena, simulando Michelangelo sdraiato d’innanzi alla volta della Cappella Sistina; o quando Visibelli si siede sulla medesima cassa e con le braccia simula la Pietà, ma non trasmette la stessa intensità con le parole. Una differenza evidente si ha nella recitazione: da un lato, Marco Natalucci che, nonostante l’interpretazione drammatizzata, riesce a dipanarla, renderla fruibile; Visibelli, invece, sembra soffrire tale scelta, tentando di risolverla segmentando il dettato, finendo per adottare una cadenza da nenia.
Quello di Zavagli è un testo interessante, ricco di spunti e riflessioni, molto istruttivo anche per un pubblico di non addetti ai lavori, ma sembrerebbe necessitare di un’ulteriore sforzo registico che metta in scena l’importante tessuto drammaturgico.