È sbiellato, ma non ingrippa, claudicante, ma non sbanda, afflitto da sinistri scricchiolii, fiaccato da maligne sciancature: potremmo però fargliene colpa? Men che mai, naturalmente. Del resto, sin dal titolo, paradossale, umoristico, beffardo, Andrea Kaemmerle denunzia la natura precaria e malferma del suo nuovo lavoro. E poi, nuovo: delicato eufemismo che, nel teatro corrente, indica il debuttare a marzo per snocciolar qualche replica nei mesi, sino a un totale che permane sotto la doppia cifra. Va da sé che la poetica s’intrida di sghembaggini e, in tal senso, si deve riconoscere una gran maestrìa al saltimbanco riccioluto di Guascone Teatro, comico non spaventato e guerriero, da anni in trincea tra gestione e produzione.
Lo accompagna, di nuovo, quel bel tomo di Riccardo Goretti (li ricordiamo nel niente male Zona torrida, testo dell’indimenticabile ma dimenticato Sannini, due stagioni orsono), fisico e ghigna da working class, tempi da clown bianco scoglionato, spalla sicura su cui poggiare un testo folle di per sé che, nella rinunzia alla tornitura, alla perfezione, al nasino all’insù del “ben fatto”, individua buona parte dei propri massicci punti di forza. La storia, del resto, è l’ennesimo parto di quel geniaccio falsario a nome Alessandro Schwed, il temibile Jiga Melik ammirato (fuori tempo massimo per colpevolissima anagrafe) sulle colonne di “Il Male”, l’importante (anzi fondamentale) rivista satirica italiana che, come “La Settimana Enigmistica”, ha vantato innumerevoli (e sempre vani) tentativi d’imitazione.
Si pesca nell’ebraismo d’Oltreoceano, tra le pagine lepide di Bernard Malamud. Dimenticatevi Moni Ovadia, le lezioncine didascaliche sullo spirito yiddish: pure Schwed ne condivide il credo, ma ha uno humour ben più absurdista e, nell’intersezione con lo scrittore newyorkese, quasi alleniano. La storia, si diceva: un diavoletto in cerca di “sistemazione” (Kaemmerle) ha il compito d’indurre in tentazione e peccato l’Extravergine, vivente modello più unico che raro di probità il quale, difatti, calca il mondo una volta ogni mezzo millennio. A illustrar l’argomento è lo stesso autore della commedia, nella metafisica proiezione video che punteggerà via via il dettato, sino al lieto fine impreziosito dalla bella Agostina Cassini, strumento del diabolico (e romantico) esito da commedia.
La scena ha struttura tripartita, ambientiazioni separate da pareti con porte disposte in diagonale, a mettere ulteriormente in crisi ogni principio di linearità, foss’anche visiva. Kaemmerle è ubuesco per forma, mercuriale per disposizione, uno spiritello furbetto e spaesato, col suo slavo macchiato di toscano, una lingua liquida e irresistibile; Goretti un aspirante rabbino che mai nella vita, a pochi giorni dal termine dell’apposito settennato di studi, è mai stato sfiorato da tentazioni sensuali. L’incontro tra i due è spassoso: una strana coppia che non lesina fioretto e clava, tempi comici ben oliati sulle caratteristiche di ognuno, nel naturale adattamento d’una partitura da piegare, eseguire, persino manomettere, con una certa libertà. E proprio in virtù di tale disinvoltura, limite o qualità a seconda dell’impiego, spettacoli come questo avrebbero bisogno d’agio e tournée, per rodare ancor più andamento e interpreti.
La sala del Lux, gremita e stipata alla bell’e meglio, apprezza comunque e, anche in questo caso, non potremmo fargliene una colpa. Naturalmente.