ARCHIVIO SPETTACOLI
Ifigenia, liberata, Rifici (2017)
Titolo: Ifigenia, liberata
ispirato ai testi di Eraclito, Omero, Eschilo, Sofocle, Euripide, Antico e Nuovo Testamento, Friedrich Nietzsche, René Girard, Giuseppe Fornari
progetto e drammaturgia di Angela Demattè e Carmelo Rifici
regia CARMELO RIFICI
con (in ordine alfabetico) Caterina Carpio, Giovanni Crippa, Zeno Gabaglio, Vincenzo Giordano, Tindaro Granata, Mariangela Granelli, Igor Horvat, Francesca Porrini, Edoardo Ribatto, Giorgia Senesi, Anahì Traversi
scene Margherita Palli
costumi Margherita Baldoni
scene realizzate dal Laboratorio di Scenografia “Bruno Colombo e Leonardo Ricchelli” del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
costumi realizzati dalla Sartoria del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
maschere Roberto Mestroni
musiche Zeno Gabaglio
disegno luci Jean-Luc Chanonat
progetto visivo Dimitrios Statiris
in video Maximilian Montorfano, Jacopo Montorfano e Agnese Chiodi
produzione LuganoInScena
in coproduzione con LAC Lugano Arte e Cultura, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa e Azimut
in collaborazione con Spoleto Festival dei Due Mondi, Theater Chur
con il sostegno di Pro Helvetia, Fondazione svizzera per la cultura
Lo spettacolo nasce dall’esigenza di indagare, ancora una volta, come un leitmotiv dei miei ultimi lavori, l’uso della violenza, sia a livello macroscopico sia nel microcosmo familiare. Ciò che mi inquieta fortemente è questa ineliminabile caratteristica dell’essere umano di distruggere, di chiudere. Nella sua continua evoluzione tecnologica e scientifica la nostra specie non ha mai fatto a meno delle guerre, del sangue, della sopraffazione. Perché?
Ancora oggi gli uomini cedono alla violenza, non trovano altro modo per combatterla se non usandola a loro volta, sempre in nome di un padre da vendicare, di un territorio da difendere, di un Dio da obbedire. E mentre il mondo è sempre più occupato a prendersi cura delle proprie vittime, le vittime non cessano di diminuire. Ifigenia, liberata tenterà di svelare l’annosa questione della nostra natura violenta.
In una sala prove (ma potrebbe essere anche un altro luogo di incontro, una biblioteca, un salone, certamente un luogo di pensiero) attori e pubblico insieme ad un regista e una drammaturga riprendono il Mito degli Atridi, partendo dal testo del tragediografo greco Euripide, Ifigenia in Aulide. In realtà è solo un pretesto di partenza necessario alla drammaturga per portare alla luce l’intuizione segreta di Euripide: l’eroe greco non è colpevole, colpevole è la folla che ha bisogno di un colpevole.
Schiacciata dal volere paterno, contagiata dalla follia della folla, Ifigenia sembra non poter uscire da un destino senza speranza in cui solo il sangue di un innocente può placare la violenza del popolo. Ifigenia, come Arianna che muore a causa di Teseo dopo averlo aiutato, come lo stesso Dioniso, Dio-bambino sacrificato ai Titani, ma anche come Isacco dell’Antico testamento, si trovano nella costrizione di dover dare la propria vita per gli altri, per un bene che appare supremo. Lo spettacolo cerca, nella scena di Margherita Palli, di ricostruire uno spazio della condivisione. Sul modello del simposio platonico, attori, tecnici e spettatori si ritrovano a discutere sul sacrificio, portando differenti teorie, tentativi di analisi.
A capo di questo convivio un regista e una drammaturga danno al pubblico degli strumenti di approfondimento, spesso delle spiegazioni mai didascaliche ma utili a ricreare un ponte tra palcoscenico e platea, una grammatica comune, codici di comprensione.
Lo spettacolo non ha la pretesa di dare risposte, ma nello stesso tempo non può sottrarsi dal dire che la specie umana si è trovata più volte nella situazione di poter ‘afferrare’ la propria libertà, grazie alle leggi di Atena, alle parole dei filosofi, Platone ed Eraclito in primis, al libero arbitrio portato dal Cristo.
Eppure l’uomo continua a sfuggire la sua libertà, il suo dovere di giustizia. Ancora oggi le parole di Platone risuonano alte e sinistre alle nostre orecchie: “quanto è più facile l’ingiustizia”. Giustizia è debolezza, il giusto è il debole. Chi vuole esserlo in un mondo costruito sulla forza?
Eppure c’è una parola che potrebbe fermare l’ingranaggio infernale, una parola capace di smascherare l’inganno, è la parola compassione, ma è troppo scomoda da pronunciare, troppo pericolosa per l’antico desiderio dell’uomo di sopraffare, di desiderare continuamente la roba dell’altro.
Carmelo Rifici – note di regia
Quando Carmelo Rifici mi chiamò per propormi di lavorare sul legame tra la violenza e il sacro non pensavo affatto a quello che sarebbe accaduto. Sospettavo di dover studiare una quantità straordinaria di testi, che da Eraclito passavano dai tragici per arrivare alla Bibbia.
Pensavo di dover finalmente interrogarmi e documentarmi sull’Islam oggi, cosa necessaria e che già era nei miei piani.
Avevamo già lavorato insieme qualche anno fa sul personaggio di Clitennestra. Avevamo cominciato già lì ad avere delle intuizioni: ci sembrava che gli atti terroristici di matrice islamica, che si stavano intensificando nel mondo, avessero un forte legame con qualcosa di molto antico, qualcosa di precedente all’intervento divino di Atena, l’atto in cui finalmente consegna la giustizia agli uomini. Dunque per continuare questa riflessione, che allora era densa ma ancora molto primitiva, Carmelo mi chiese di affrontare questo nuovo lavoro.
Il primo autore di cui mi parlò fu René Girard. Chi ha letto questo autore sa quanto sia sorprendente e quanto la sua idea sulla nascita del genere umano appaia improvvisamente come l’interpretazione possibile del mondo. Entrando nell’universo girardiano se ne rimane folgorati: tutta la visione dei rapporti tra gli esseri umani, della sfera religiosa e della storia dell’Occidente ne viene stravolta. I miti vengono rivoltati.
Qualche mese dopo ne parlammo con Marco Martinelli, quando venne a Lugano per una personale sulla sua compagnia, Teatro delle Albe. Ci parlò del Prof. Giuseppe Fornari, che di Girard condivideva l’intensità di ricerca ma con esiti diversi rispetto alla lettura dei Tragici. Soprattutto di Euripide. Fornari era convinto che nell’ultima tragedia di Euripide si nascondesse un’intuizione profonda. Scegliemmo quel testo. Fu la scelta giusta.
Ma come far confluire tutto questo studio, questo interminabile schiudersi simbolico dentro uno spettacolo teatrale? Come orientarsi in questo affondo lungo e faticoso nella storia del pensiero che da Eraclito arriva fin qui? Non posso negare che questo affondo sia stato spesso disorientante e pauroso. Girard, Fornari, Nietzsche, Eraclito, Euripide, Platone, Isaia: un labirinto dell’anima sempre più intricato. Tante volte ho rischiato di perdermi nel labirinto prima di scoprire all’interno curve inaspettate e interessanti.
Regista e drammaturga insieme, come Teseo con Arianna, srotoliamo il filo e cioè i nostri visceri che ci portano al centro del labirinto. Quell’antico punto focale che da luogo del rito sarebbe diventato: teatro. Ci addentriamo per capire da dove è partito e cosa nasconde, il teatro. Con il tremore di non avere più bisogno poi, del teatro. Con la sensazione che vada preso sul serio oggi, il teatro.
Parlare dell’uomo oggi è lo stesso che tremila anni fa, probabilmente. In tutto il mondo. Riti speculari, molto simili, davano senso e tempo agli uomini. Credere che le civiltà umane nascano da violenza ‘controllata’ in gesti rituali è una scoperta terribile. Ma, se così è, tanto vale starci davanti. Allora, di fronte alla vicenda di Ifigenia, sacrificata perché la guerra possa cominciare, dobbiamo chiederci se sia stata davvero una scelta ‘irragionevole’. Dobbiamo chiederci se oggi esista una reale alternativa a quella scelta. Cosa faremmo noi.
Il ‘discorso’, la ‘parola’, la ‘ragione’, il ‘senso’ che oggi ci guida si è liberato da quel sacrificio? A che punto è arrivato il cammino del nostro umano, troppo umano LOGOS?
Angela Demattè